giovedì 22 maggio 2008

Viaggio al termine della munnezza

di Antonio Massarutto 06.05.2008

Primo Consiglio dei ministri a Napoli, all'ordine del giorno la crisi dei rifiuti. Ma anche per il nuovo governo non sarà facile trovare una soluzione definitiva. Nel frattempo, la situazione è lontana dalla normalità: si cerca ancora un rimedio temporaneo per far fronte all'emergenza. Intanto, però, il capitale di fiducia dei cittadini nelle istituzioni è stato dissipato e il denaro sperperato per operazioni clientelari o conniventi. Da questa situazione si uscirà con enormi difficoltà, grande pazienza, nervi saldi e soprattutto tempi lunghi.

E così, a quanto pare, il primo Consiglio dei ministri si terrà a Napoli e avrà all'ordine del giorno la crisi dei rifiuti. Non vorrei fare l’uccello del malaugurio, ma temo che il nuovo governo incontrerà delle difficoltà quando si accingerà a trovare la soluzione. Specialmente se ritiene di poterla imporre manu militari. Nel frattempo, la situazione all’ombra del Vesuvio è ancora lontana dalla normalità, nonostante le vagonate caricate sui treni e destinate un po’ qua un po’ là nel Nord Europa. Si ricerca ancora un rimedio temporaneo per far fronte all’emergenza; figuriamoci soluzioni più strutturali.

I RIFIUTI DI MILANO

L’aspetto paradossale dell’intera vicenda è che le misure da adottare sarebbero in fondo semplici. Basterebbe imparare da chi una crisi simile l’ha sfiorata, con punte meno drammatiche ma con termini della questione assai simili: Milano. Anche la capitale morale d’Italia, una dozzina di anni fa, era presa alla gola dalla scarsità di impianti, dopo che l’ennesima proroga all’ennesima discarica ennesimamente precettata con ordinanza della Regione scatenò la rivolta. Ne uscì con una soluzione di lungo termine – la messa in opera di un sistema di raccolta differenziata e la realizzazione di un sistema di termovalorizzatori – e, nel tempo necessario per costruire gli impianti e il consenso, con un espediente degno di Totò e Peppino: l’ormai celebre impianto Maserati, che avrebbe dovuto ricavare dalla ruera ammendanti agricoli (compost) e combustibile da destinare ad attività industriali come i cementifici. In realtà, che io sappia, nemmeno un grammo di compost e di cdr fu mai recuperato. I materiali in uscita dall’impianto, in compenso, cambiavano etichetta, trasformandosi in rifiuti industriali e potendo così essere inviati in tutta Italia, Campania compresa, destinandoli a un ampio ventaglio di soluzioni alternative, dai ripristini ambientali alle massicciate stradali, e come ultima risorsa alla discarica.
In modo formalmente del tutto legale, si noti bene, sfruttando il fatto che per i rifiuti speciali, a differenza degli urbani, vale un regime di libero mercato. (1) Della società mista che gestì all’epoca l’impianto di “camuffaggio”, molto opportunamente, erano partner alcune delle principali imprese che operavano discariche per rifiuti speciali sul territorio nazionale – un’assicurazione sul fatto che una destinazione sarebbe comunque stata garantita. A voler dire proprio tutta la verità, nessuno può giurare che qualche “ecoballa” milanese non abbia preso destinazioni meno ortodosse, tra un intermediario e un cambio di codice merceologico. (2)
Ma il tempo guadagnato con questo stratagemmaè stato poi speso bene, gli impianti “veri” sono stati realizzati senza ritardi, la raccolta differenziata è stata sviluppata adeguatamente, perfino la “sindrome Nimby” si è dimostrata un ostacolo superabile. Anche qui la ricetta non è in fondo così complicata: mettere la gente di fronte ai propri problemi, eliminare dall’orizzonte l’idea di poter contare sul giardino di qualcun altro, condividere con i cittadini l’informazione su quali siano gli spazi entro cui cercare la soluzione, fare sopportare i costi a chi ne è la causa, riconoscere la serietà delle ragioni di chi inevitabilmente finirà per ricevere le maggiori conseguenze impattanti, e ricercare un compromesso con loro.

GLI IMPIANTI NON BASTANO

Le ragioni per cui Napoli non è ancora riuscita a copiare questa semplice ricetta sono state discusse fino alla nausea. Con le ecoballe ci aveva pure provato, dimenticandosi però il tassello decisivo: assicurare in partenza il destino delle stesse, stringendo alleanza con gli smaltitori di rifiuti speciali. Si è puntato invece tutto, con errore non sappiamo dire quanto involontario, sull’aspetto impiantistico, immaginando un mercato per il cdr e il compost che non c’è, non c’è mai stato e probabilmente mai ci sarà. Si è dimenticato che oltre all’hardware degli impianti è importante anche il software rappresentato dal “capitale sociale”: collaborazione dei cittadini alla raccolta differenziata, dialogo pubblico e aperto sulle soluzioni, costruzione del consenso basata, in primo luogo, sulla dimostrazione della propria capacità di meritare la fiducia.
Anche gli intrecci tra la munnezza e i ben più lucrosi rifiuti industriali tossici, dei quali stranamente non si parla quasi mai, sono stati abbondantemente chiariti. Come mostrano le inchieste parlamentari e i rapporti di Legambiente e Arma dei Carabinieri, la presenza contemporanea nella gestione dei rifiuti urbani, speciali e pericolosi ha consentito lucrosi (quanto criminali) arbitraggi: mentre gli impianti autorizzati per i rifiuti industriali rilasciavano certificazioni di corretto smaltimento, questi venivano in realtà stoccati nei molto più capienti e tecnicamente molto più semplici impianti per urbani, quando non direttamente sul suolo spacciandoli per ammendanti agricoli o materiali di riempimento. (3)

LE COLPE DEL SISTEMA

Discutere sulle colpe e le responsabilità individuali è consolatorio, ma ozioso. Mai come in questo caso, a mio parere, il male non tocca tanto le singole persone, quanto il sistema. Un sistema in cui il capitale di fiducia dei cittadini nelle istituzioni è stato dissipato, il denaro sperperato per operazioni clientelari o conniventi. Un cocktail micidiale di incapacità, ignoranza, malafede, pressappochismo, tirare a campare, che ha fatto da schermo alle ben più lucrose operazioni gestite dalla malavita organizzata. Un sistema in cui nessuno è innocente, nemmeno quei cittadini che oggi strepitano in piazza contro gli impianti – quegli stessi impianti che si fanno in tutta Europa ormai anche nelle aree residenziali, tanto sono sicuri – e invece se ne sono stati zitti per quindici anni, quando tutto il mondo sapeva cosa stava succedendo al sottosuolo campano nelle mani della camorra. Quella stessa camorra che dal protrarsi dell’emergenza non può che trarre vantaggio, vedendo salire alle stelle il prezzo delle poche discariche ancora in esercizio.
Da questa situazione si uscirà con enormi difficoltà, grande pazienza, nervi saldi e soprattutto tempi lunghi. Che il Cavaliere voglia provarci in prima persona è certo encomiabile, ma controproducente. Primo, perché non è con il veni, vidi, vici che si potrà mai combinare qualcosa. Secondo, perché anche se mai ci riuscisse nel breve, rischia tuttavia di cristallizzare all’infinito il meccanismo diabolico che rende la Campania incapace di provvedere da sola come tutte le altre Regioni, assuefacendola alla droga del commissariamento straordinario, al ritmo – si dice – di 200mila euro al giorno. I tedeschi, attenti all’ambiente almeno quanto agli affari, stanno intanto pensando di realizzare un impianto nuovo di zecca dedicato interamente al munifico cliente campano. Napoli chiagne e fotte, il contribuente italiano paga, Berlino incassa. Un triangolo perfetto.
Per uscire dalla crisi la Campania ha bisogno soprattutto di diventare adulta. Volendo, ha le risorse per farlo. Bisogna far leva su quel poco di orgoglio ancora rimasto, rilanciando con un investimento a lungo termine sull’immagine della città, magari sfidando ingegneri e architetti a costruire l’impianto più bello del mondo, come propone Sergio Ascari nel commento a un mio precedente articolo, facendolo più in centro che si può, più sfrontato e munnezzaro che si può, come una cicatrice che ricordi per sempre ai napoletani questo drammatico inverno 2007-2008, ma insieme rappresenti un simbolo di rinascita e di coscienza civica. Lo ha fatto col pallone, precipitando in serie C e ritornando in serie A. Lo può fare anche con i rifiuti, senza bisogno di San Gennaro, ma rimboccandosi le maniche e facendo come tutti gli altri.
Nel frattempo, se non è chiedere troppo, non sarebbe male se fossero i cittadini napoletani a farsi carico dei costi astronomici necessari per trasferire altrove ecoballe e affini. Chissà mai che, a forza di pagare fatture triple o quadruple rispetto al resto d’Italia, anche da quelle parti non si cominci a usare il rasoio di Occam e a desiderare un bel bagno nella sana, grigia, consolante normalità.

(1)Ai sensi della legge, oggi compendiata nel Dlgs 152/06, la gestione dei rifiuti urbani deve sottostare alle prescrizioni del piano regionale e provinciale, che prevede tra l’altro la destinazione dei flussi raccolti a determinati impianti e impone il cosiddetto “principio di prossimità e autosufficienza”: gli impianti devono essere situati nell’ambito territoriale da cui i rifiuti provengono, di solito la provincia. Il detentore di rifiuti speciali, invece (tutte le imprese industriali e commerciali) è solo obbligato a disfarsene in modo lecito, rivolgendosi a un operatore autorizzato, che però potrebbe trovarsi ovunque (con qualche vincolo, peraltro insufficiente, per assicurare il controllo). Il gestore di un impianto di smaltimento per rifiuti urbani previsto dal piano regionale, da questo punto di vista, è un’impresa come tutte le altre. Dagli impianti escono comunque scarti che devono poi essere smaltiti (per esempio, le ceneri di combustione nel caso dei termovalorizzatori; i sovvalli derivanti dalla selezione secco-umido). Il compost e il cdr dovrebbero teoricamente trovare un mercato, tuttavia la loro bassissima qualità li rende idonei al più per impieghi al confine tra il recupero e lo smaltimento (per esempio, uso del compost come terra di copertura delle discariche o per il ripristino delle cave dismesse). Quando non trovano neppure questi impieghi, sono rifiuti a tutti gli effetti, come avviene nel caso in cui a un’impresa industriale capiti di produrre merci deperibili e invendute, di cui deve poi disfarsi.

(2)Il meccanismo, diabolico ma abbastanza semplice, è infatti obiettivamente molto difficile da controllare anche per chi volesse fare tutto nella massima correttezza. Il possessore dei rifiuti se ne libera cedendoli a un operatore autorizzato; tra questo e le attività di destinazione vi sono di solito numerosi passaggi intermedi nei quali i rifiuti vengono trattati, miscelati, manipolati, sempre da operatori autorizzati che si rilasciano l’un l’altro attestati e bolle che comprovano il passaggio. Il fine di queste attività è corretto: permettere di ricavare dai rifiuti indistinti materiali con caratteristiche più precise, tali da poterli impiegare in qualche attività secondaria o, alla peggio, avviarli a forme di smaltimento più specifiche. La normativa prevede i criteri per la classificazione merceologica, stabilendo quali materiali possono essere destinati a quale tipologia di impianti, se e come possono essere movimentati, a chi possono essere ceduti. È intuibile tuttavia che in questa serie di passaggi, difficilmente controllabili, c’è spazio per comportamenti illeciti, che traggono linfa dal fatto che la classificazione dei materiali è almeno in parte opinabile, e con opportune miscelazioni è possibile far cambiare codice anche alla peggior sostanza tossica.

(3)Si veda Legambiente e Arma dei Carabinieri, 2005, “Rifiuti Spa. Radiografia dei traffici illeciti”, Roma. Il testo integrale del rapporto può essere scaricato da www.legambiente.it. Gli atti della commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e le attività illecite a esso connesse sono integralmente disponibili sul sito della Camera dei Deputati: www.camera.it.

di Antonio Massarutto 06.05.2008
Articolo tratto dal sito www.lavoce.info

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